Un giorno, verso sera, le ombre che lo aggravavano, parve divenissero ancor piú fitte, piú desolate. Era la vigilia della solennità dei morti.
— Cencio, dammi mano, usciamo all'aperto: ho bisogno di respirare!
E Cencio che non l'avea abbandonato, sia speranza di eredar qualche cosa, sia impossibilità di acconciarsi a servizio d'altri, poiché tutti conosceano i meriti di un tanto galantuomo, condusse passo passo il suo padrone sull'erta di un vicin colle.
— La giornata deve esser bella, disse il cieco levando il mento; che vedi Cencio?
— Gli ultimi raggi del tramonto colorano l'orizzonte sopra il mare; battono sui vetri delle finestre del castello, nel giardino inselvatichito e nelle acque di quel lago che, indorate dal sole e commosse dalla brezza, somigliano a sangue ribollente.
Il Notaio tremò a queste parole — In quel lago s'annegò il medico.
E dove siamo? dove sediamo?
E movea le mani a tentone.
— Sui rottami dell'altare consacrato alla Vergine, tra le rovine della cappella, rispose Cencio.
— Fuggiamo! fuggiamo!
E balzò in piedi quasi un aspide appiattito tra que' sassi l'avesse punto. Fece alcuni passi colle braccia tese, senza l'aiuto di Cencio, e tremando da capo a piedi, parea Edippo nella foresta consacrata alle Furie.
— Cencio, ove sei?
E Cencio tacque.
— Cencio, per pietà, non lasciarmi qui in abbandono! Si fa notte... notte eterna!
— Vi ricorda, padron mio, di quella notte?... le fiamme dell'incendio la illuminavano; una turba di forsennati vi applaudiva all'intorno di questa cappella.
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