Il cuore non ci regge a descriver le smanie di questa nobil donna, caduta da sí alto grado di felicità nell'abisso della miseria piú disperata. Primieramente si tenne illusa da orribil sogno; quello stuolo di armati che irrompono, al bagliore delle fiaccole, nelle sue stanze maritali; l'imagine dello sposo, pria combattente, poi ferito e caduto a terra... ed ora, quel letticciuolo, quella cupa vôlta, quegli enormi pilastri che la sostengono, quell'inferriate rugginose, quello stesso silenzio, quell'assenza d'ogni volto conosciuto l'opprimono di dolorosa meraviglia, la costringono a dubitar di se stessa. Mossa dall'abitudine e dall'istinto materno, stese il braccio in cerca del pargoletto che la sera innanzi avea coricato al suo fianco; quindi chiamò il marito, ondeggiante tra l'orribile realtà e la memoria delle consuete dolcezze domestiche; ma non le venne veduta che l'ignota guardiana, la quale, con atto suo proprio, cercava di consolarla.
— Dove è mio marito, dove è mio figlio? Chi siete voi?
Tutta la vita dell'infelice si raccolse in queste parole, in questo strido disperato che le uscì dalle viscere, e risvegliò nel cuore della vecchia sentimenti sepolti da gran tempo. Seduta sulla persona, colle labbra semichiuse e tremanti, cogli occhi spalancati, immobili, fitti in quelli della vecchia, col respiro sospeso da un'ansia indescrivibile, aspettò la risposta.
La guardiana non seppe formar parola.
— Se tu, ripetea Enrichetta, sei creatura vivente, dimmi: dove è il mio sposo... dove è il mio figlio.
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Enrichetta
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