Eloisa, spogliata affatto della dolcezza e la timidezza del proprio sesso, piú non spirava che furore e vendetta; disperata e forse disdegnosa di vincere, non agognava che di morire. Guglielmo, colla prudenza, colla fermezza dell'età avanzata, avea ripresa tutta la forza della sua giovinezza; combatteva anch'egli non per vincere, ma per morire.
Achmet li riconobbe, e non potè a meno di deplorare in suo cuore la triste fatalità che lo strascinava contro di loro; pensò pure, con uno sgomento non mai sentito, che in quel castello dovea trovarsi la bella Irene, l'infelicissima figliuola di Costantino. La minacciosa risposta d'Eloisa all'inviato mussulmano di seppellirsi nelle rovine di quella fortezza, anziché cedere, cominciava ad impaurirlo; compiangeva tanta virtù sacrificata inutilmente, e lo spreco di quelle vite, una delle quali già gli era divenuta assai piú cara della propria. Ma tale era la furia dei colpi, tale il rimbombo dei macigni che si rotolavano, e il fischiare d'ogni genere di proietti, che era impossibile farsi intendere, sia dai compagni, sia dai nemici.
Per ben tre giorni si è combattuto senza tregua, senza respiro. I soldati genovesi che difendeano il castello, estenuati dalla fatica, dai continui assalti dei Mussulmani e decimati dalla morte, vedevano inutile la resistenza, eppur continuavano. Finalmente, non si sa come, scoppiò l'incendio dentro una delle torri della fortezza; la fiamma, rafforzata dal vento che imperversava sul mare, e fatta piú risplendente nel tenebrio della notte, rifletteasi sinistramente nell'acque sottoposte del canale, e illuminava una scena di rovina e di morte.
| |
Irene Costantino Eloisa Mussulmani
|