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      Achmet, che in silenzio la contemplava, si sentì penetrato da un sentimento di rispetto cosí profondo e sublime al tempo stesso per quell'infelice, che anch'egli versò una lacrima e proruppe coll'accento piú doloroso del cuore:
      — Pur troppo, o principessa, la fatalità ci domina, avversa ad ogni mio desiderio, piú potente del mio volere. Voi celate un arcano che io non posso penetrare, arcano che strascina voi e me a precipizio... Eppure io non ho congiurato coi Musulmani alla rovina della vostra patria; e adesso ancora, se io non posso restituirvi la corona dei vostri padri, posso offerirvi questa spada di cavaliero e questo cuore dove voi regnerete senza contrasto...
      Irene, sorridendo malinconicamente all'idee d'ambizione che il cavaliero le supponeva,
      — No, io non desidero nè la corona de' miei padri, nè invidio punto i sanguinosi trionfi del mio vincitore. Ho imparato a disprezzare ogni terrena grandezza, poiché omai la piú splendida corona dell'universo non potrebbe restituire al mio cuore uno di que' momenti irrevocabili che ci fanno presentire le gioie del paradiso.
      — V'intendo, o principessa, l'arcano che voi mi celate... è amore! Altri già possiede il tesoro del cuor vostro; io mi consumo in un vano desiderio....; ogni mia offerta è dispregevole agli occhi vostri!
      E trapelava da queste parole, e piú ancora dall'espressione della voce, un sentimento di gelosia che Achmet, suo malgrado, non potè mascherare.
      Irene, levando un'altra volta gli occhi al cielo, e quindi abbassandoli con atto di pietà profonda sul cavaliero, che ella, conscia e vittima di quei dolori, sapea compiangere:


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Racconti popolari dell'Ottocento ligure
Volume Primo e Secondo
di Autori Vari
pagine 484

   





Musulmani Achmet