Convocato perciò il consiglio di guerra, cui pure intervenne il tenente generale Cecil, fu deciso: — Che per difetto di truppe mal potea Genova sostenere l'urto dell'austriache milizie, superiori di forze e vittoriose: non esservi in casa provvedigioni che per pochi dí, stante lo strabocchevol numero di persone che dalle valli del Bisagno e della Polcevera s'erano rifuggite in città, recando non già difesa ma confusione: — La Signoria segnò il foglio fatale, ed alle ore 16 fu al Botta trasmesso. Il quale mandò tostamente un grosso corpo ad impodestarsi delle porte del Faro, e quindi il conte general Gorani con 60 granatieri, acciò fosse posta nelle sue mani anche quella di San Tommaso. Ai deputati della repubblica che gli esponevano aver egli solo una porta richiesto, ei ghignando rispose: — Non avergli ancor dato di volta il cervello: non intendere porta un mucchio di pietre erette in arco, si un libero varco in città: infine voler quella di San Tommaso. — E gliela consegnò il giorno 7 Marcello Durazzo, dopo una nuova adunanza del Minor Consiglio. Cosí Genova veniva in piena potestà degli Austriaci. Gavi pure cesse al nemico non senza fremito della guarnigione ligure-corsa e di Gian Luca Balbi, che si vide costretto ad arrendere per comandamento del Senato la rocca che, provvigionata d'assai e fortissima, non solo avea potuto sostenere un assedio, sebben interrotto, di nove mesi, e opporre per dieci giorni salda resistenza al Piccolomini, che di forza la folgorava, ma si ancora deridere i suoi impotenti conati.
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