La fatal palla, fischiando, gli feria lievemente la faccia e percuoteva il cavallo del Castiglione, suo aiutante di campo che stavagli a' fianchi. Atterrito dal corso pericolo e dalla strage de' suoi, non pose piú intoppo alla fuga, e dietro lui trassero fanti e cavalli, e fin que' corpi medesimi che ancor occupavano i propugnacoli di San Benigno e del Faro. I quali corpi, se un solo istante avessero ancora indugiato, sarebbero stati fatti a pezzi dai popolani che dalla salita di N.S. degli Angeli scendevano precipitosi a tagliar loro la ritirata. Senonchè visti sgombri que' luoghi, più che ad inseguire i fuggenti, si diedero al sacco de' magazzini tedeschi; indi, calata la notte, tornarono alle lor case non senza aver prima munito di buon presidio le porte. L'istessa sera facevan a suon di tamburo intimare che in quella e nelle seguenti notti si tenessero lumi alle finestre, le case tutte s'aprissero, minacciando del capo chi commettesse il piú piccolo furto.
S'adunavano intanto i collegi, e un giovane eletto dal popolo, così malconcio com'era dalla battaglia e lordo di sangue, presentavasi ai Padri, e le chiavi della città deponendo ai piedi del doge: — Ecco, disse, le chiavi che la Signoria Serenissima dava con tanta franchezza ai nemici: badino a meglio custodirle in avvenire, poichè a prezzo di sangue noi le abbiam riscattate. — Costui che nato di piccola origine sì terribili ammonimenti dava a que' patrizi di tanto illustri prosapie, era Giovanni Carbone, garzone nella locanda della Croce Bianca e membro del quartiere generale.
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