Né ho trovato che in alcun luogo sia stato mai lecito, o sia tuttora a' privati, di fabbricarsi la moneta, fuorché in Moscovia, ove narra Sigismondo baron d'Herbesteim che fu in quei regni ambasciadore per l'imperadore, che in quello Stato era lecito ad ogni orefice convertir in moneta l'argento che gli vien dato, facendosi pagare la sua sola fattura; abbenché ciò non possa egli fare se non con il solito impronto del re e fabbricandole col solito peso e bontá che le leggi del principe comandano: altrimenti ne paga con la vita gli errori. Ciò seguí allorquando que' popoli erano meno colti, né abitassero fra loro altre nazioni europee, alle quali è tanto difficile impedire il fabbricarne di false; perché, nello stato presente, ben presto s'avvederebbono i moscoviti quanto importi che il principe abbia la sua zecca di buone e severe leggi munita e da ottimi e fedeli ministri governata.
Li romani, benché a principi tributari ed a cittá confederate variamente permettessero di battere le loro monete, nondimeno nel dominio immediato, anzi in Italia tutta, una sola zecca avevano; e questa nel tempio di Giunone in Roma, come cosa sacra, sotto il governo di tre senatori principalissimi custodivano, i quali "triumviri monetali" si chiamavano. Quel gran re di Taprobana, a cui per fortuna di mare fu trasportato un liberto, cioè Annio Procamo, finanziere de' dazi del Mar Rosso, a tempo di Claudio imperadore, da' racconti di questo uomo, che gli narrò la grandezza dell'impero romano, non prese motivo di maraviglia, se non quando vide ed esaminò le monete romane, e le trovò tutte d'una bontá e peso, benché d'impronti diversi, e per conseguenza fatti da piú d'un principe o magistrato; dal che argomentando la giustizia di sí grandi monarchi, mosso però da disiderio d'averne amicizia, mandò a Roma quella solenne ambasciata, che Plinio diffusamente racconta al capitolo 22 del sesto libro.
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