Carlo magno in tutto il suo imperio una sola zecca volle, e questa costituí nel suo proprio palazzo: tanto importante stimava il ben custodire le leggi e gli ordini delle sue monete, sulle quali la fede pubblica di tutto l'umano commercio s'appoggia. Anche i turchi modernamente, sebbene per molte cittá e in molti regni battono monete d'argento, cioè a dire aspri e pacasi, che sono le loro monete minute, nondimeno non hanno zecca per battere oro, fuorché una sola nel Cairo, ove battono li scheriffi o siano sultanini, qualche poco inferiori di bontá al zecchino di Venezia, ma per lo piú eguali o anche migliori degli ongari d'Allemagna. Ed invero, se molte zecche avessero, interverrebbe loro anche ne' scheriffi ciò che accade negli aspri: che, battuti in piú luoghi, sono falsificati o ridotti a lega peggiore, non essendo facile convincer qual bassá gli abbia battuti, mentre sono tutti collo stesso impronto; laddove a quello del Cairo, per essere solo a batter oro, toccherebbe render conto, se si trovassero sultanini di non intiera bontá.
Insomma sono cosí importanti al ben pubblico queste cautele, e cosí grandi i pregiudizi che da' disordini delle monete risultano, che i romani, che a molte prove ne avevano sperimentati i danni, non solo fabbricarono un tempio alla dea Moneta, nume che finsero tutelare del pubblico commercio, ma gradirono talmente la riforma che fece Mario Gratidiano (uno de' triumviri delle monete, il quale instituí l'officina de' saggiatori e propose molte leggi salutifere a questa materia, particolarmente con lo stabilire il valore a' vittoriati, moneta romana allora molto in uso), che il popolo, non contento di avergli dirizzato statue per quasi tutte le vie, gli accendeva davanti le torce di cera e gli ardeva incenso come ad un dio: onde ebbe a dir Cicerone: "Neminem unquam multitudini propter id unum fuisse cariorem"; onde non è maraviglia se tante monete si trovano iscritte col nome di "SACRA MONETA AUGG." (17).
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