Né qui altro mi resta a soggiungere che levare alcun picciolo scrupolo a chi forse dir mi volesse che sono i disidèri degli uomini di gran lunga piú numerosi di quello sia la quantitá delle monete che corre in commercio, e che sarebbe troppo felice il mondo, se non si estendessero le umane brame piú lá della possibilitá della moneta. Ma io rispondo e dimando a costoro: se essi hanno mai riposto in granaio punto di quel grano, che, seminato in terra, non ebbe la fortuna di far radici, nascere, crescere e maturare. E chi vuol mettere in conto i disidèri umani delle genti stolte, connumerandoli a quelli che conseguiscono il suo fine? La moneta misura l'intenzione di quei disidèri che conseguiscono il suo fine, non misura i sogni degl'imprudenti, che vaneggiano tra le stolte cupidigie loro. Tuttociò che si compra in qualche modo si disidera: o sia per conseguire per suo mezzo un bene vero o un apparente, o sia per isfuggire un male o per ubbidire ad una forzata necessitá, tutto è disiderare, tutto è aver bisogno, in senso del filosofo; e l'intenzione di questo disiderio e di questo bisogno, con che facciamo di qualunque cosa l'acquisto, dalla moneta vien misurata. L'altre cose, che disideriamo invano (siasi per impotenza nostra o per natura loro che conseguire non le possiamo) non cadono sotto l'"indigenza" detta da Aristotele nel testo che sopracitammo, ma sotto il titolo di "vane cupiditá", che non sono ad alcuna misura soggette. "Multa petentibus desunt multa. Bene est cui Deus obtulit parca, quod satis est manu".
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Aristotele Deus
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