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      E sebbene, in que' pochi contratti che fanno con gente estranea, sono forzati a valersi di monete d'oro e d'argento, di che non hanno per tali occorrenze carestia, fra di loro però si valutano quelle di carta, al pari di quelle d'ogni metallo, conforme le valuta il re; né vi è quasi differenza dall'uso di esse all'uso delle polizze de' mercanti, con le quali girano i pagamenti tra loro, senza contare, il piú delle volte, monete in gran numero, servendo in luogo di quelle il credito di quel mercante che s'ha formato debitore colla sua sottoscrizione, o pure le partite di bancogiro in quelle cittá ove si costuma. Perciò quel principe, i sudditi del quale non contrattassero con gli esteri, potrebbe dar valore alle sue monete conforme a lui piacesse, senza far pregiudizio a' sudditi; e potrebbe dire d'aver la vera alchimia e la vera pietra filosofale, mentre la sua sottoscrizione valerebbe tanto quanto a lui paresse di valutarla. Li spartani, allorché Licurgo vietò loro ogni moneta fuorché di ferro, se la passarono qualche centinaia d'anni con quella, tutto che pesante ed incomoda, non ostante che per comprarsi una berretta lor bisognasse condur seco un facchino carico di quella moneta, per pagarla. Ma le guerre esterne avevano bisogno d'oro e d'argento, perché in terre aliene, ove gli altri popoli non si contentavano di vivere alla spartana: gli stessi spartani avevano bel mostrare moneta di ferro, che, se altra non avevano, non averebbono a' bisogni del vivere potuto provvedere.


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Economisti del cinque e seicento
di Gasparo Scaruffi - Antonio Serra - Germinio Montanari - Augusto Graziani
Editore Laterza Bari
1913 pagine 458

   





Licurgo