Se dunque un principe vuole che le proprie monete d'argento e d'oro siano accettate da' popoli stranieri, sicché possano i sudditi aver commercio con essi, non può egli valutarle se non giusta l'interna bontá e valore: altrimenti gli altri principi non vorranno giá ricevere allo stesso prezzo l'argento fino e quello di bassa lega, né i mercanti forestieri vorranno ricevere moneta che, a spenderla nuovamente in altri luoghi, porti discapito. E questa è la ragione, che impone necessitá quasi precisa a tutti i principi di valutar le loro monete giusta l'intrinseca valuta e bontá loro, senza vantaggio della propria borsa in altro che in quel poco di signoraggio, che, oltre la spesa di zecca, scarsamente si pigliano; nel che fra loro passa per consuetudine certa convenienza, o ne tolerano i popoli il poco danno, che dal trasporto di quelle monete ne' Stati alieni ne vien loro. Anzi, perché si ragguagliano le monete forestiere, per lo piú, non al metallo non coniato, ma al valore dell'altre coniate, viene quel poco di avanzo a restare anche quasi senza considerazione.
Per due ragioni però può egli fare qualche maggiore provecchio sulle monete basse e minute che su quelle d'argento e d'oro. Una si è, perché queste non si adoprano d'ordinario se non ne' contratti piccioli e nelle minute spese da' suoi popoli, che fra loro le riceveranno sempre a quel prezzo ch'egli vorrá loro imporre co' suoi editti. L'altra si è, perché, qualunque siasi la bontá loro, queste picciole monete di bassa lega sono quasi da' principi confinanti bandite e rifiutate, non solo perché forse non contengono il valore per cui si spendono, ma perché gli altri principi anch'essi vogliono godere lo stesso vantaggio nello Stato loro di battere il viglione, o sia moneta minuta, per uso delle loro plebi con loro profitto, e perciò proibiscono il viglione forestiere: onde, o buono o cattivo che sia il viglione, i contratti de' suoi sudditi con gli estranei non si pareggiano per lo piú con altra moneta che con quella d'oro e d'argento.
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