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      Chiaro sta dunque che nemmeno nelle monete inferiori possono i principi sottrarsi molto dalla proporzione dell'intrinseca valuta per cavarne profitto per sé, senza pericolo d'addossare a sé ed a' sudditi danno non isprezzabile.
      Ma qui succede però un'altra considerazione a favor loro, ed è che l'interesse de' falsari non va colle misure delle zecche reali; e, quando il falsatore non ha guadagno grande, non guadagna nulla, perché sono tanto maggiori le sue spese. Quel conio, che ad un principe non costa un quarto di pezza da otto, ad un falsario costa spesse volte quattro e sei doppie: perché chi serve alla zecca pubblica non azzarda la vita, e riceve quel solo prezzo ch'è proporzionato alla fatica; ma, se un artefice ha da fabbricar conii di nascosto con pericolo di tutto l'esser suo, non si lascia persuadere che a forza di molto oro. Ed io ho veduto alcuni ponzoni maestri, trovati in casa di un falsario, che in processo si rilevò essere stati pagati dieci doppie l'uno, e non valevano una fra tutti, se fossero stati fatti nella zecca del principe. Cosí gli operari, o sieno mantenuti dal falsario, o sia ch'egli operi di sua mano, che però tutto non può fare da sé, costano di gran lunga piú che al principe; onde nasce poi ch'egli non tresca volentieri a lavorar monete di poco valore, perché non meno fattura va a fare un soldo che a fare un zecchino.
      E perciò, quando il principe sa che non vi sia gran guadagno a falsare il suo viglione, può star sicuro dalla loro iniquitá e godersi quel moderato utile, che da limitata quantitá di quello gli può provenire; né in ciò ha meno aggravio di coscienza, mentre al suo suddito non ne nasce dentro a questi temperamenti detrimento veruno.


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Economisti del cinque e seicento
di Gasparo Scaruffi - Antonio Serra - Germinio Montanari - Augusto Graziani
Editore Laterza Bari
1913 pagine 458