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      E lo stesso deve dirsi de' pagamenti d'opere a giornata de' poveretti.
      Ma qui alcuno mi dirá che il grosso dell'entrate e de' campi consiste principalmente ne' grani, e che questi non soggiaciono a questa mutazione di prezzo, perché la mercanzia del formento ha sempre comunicazione coi paesi confinanti; sicché, quando negli Stati esteri vicini il formento val piú oro che non vale nel nostro paese, subito ne concorre parte del nostro in quella parte; il che fa che ancor nel nostro paese cresca il prezzo: onde, siccome l'altre mercanzie forestiere crescono di prezzo al crescere delle monete, cosí crescerá anco il valor de' grani; e però né il patrone, né il contadino averá in questa parte danno dalle monete. Io rispondo che concedo per vero che il prezzo del formento non resta piú vile sensibilmente per crescere le monete; ma, se il contadino dovrá, come pur di spesso deve, con li danari che cava de' polli, frutti, opere a giornata e simili, comprarsi il pane, e le monete cresciute hanno fatto crescere il grano, tanto maggiore è il danno suo, perché guadagna meno e spende piú.
      Finalmente la maggior obbiezione ch'io trovi a questo mio discorso è per la parte del danno de' principi. Imperocché, affittando essi li loro dazi a scudi d'oro o a ragione d'altre monete, sebbene fossero immaginarie, come in Venezia i ducati, nondimeno la cassa del principe non riceve le monete se non a quel valore ch'esso principe ha per suoi bandi costituito, qualunque siasi il valore abusivo che il popolo ha accresciuto alle stesse monete, onde pare non ne venga danno almeno alla cassa del principe; e se si dice che il daziaro riscuote però a moneta minuta, rispondono di no, perché anzi anch'egli si fa pagare a ragione della valuta de' bandi, e non secondo il valore abusivo de' popoli.


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Economisti del cinque e seicento
di Gasparo Scaruffi - Antonio Serra - Germinio Montanari - Augusto Graziani
Editore Laterza Bari
1913 pagine 458

   





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