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      Ma erano mutati i tempi per Genova. I suoi reggitori non sapevano trovar fiamma al pensiero dell’opere grandi che i grandi Genovesi avevano operate. I nomi degli Adorni, dei Fregosi, dei Doria ed altrettali non giungevano ad iscuoterli. Una sol donna antica genovese valeva per tutti quei padri; quelle donne che, serrate in unità di falange, animose volavano al conquisto del sepolcro del Nazareno; facevano gitto de’ loro gioielli e dorerie per cingere la città di baluardi; pugnavano, ministravano le armi; quella bellissima figlia di Fulcone Guercio che, ferita la mammella di strale, cadeva a lato de’ combattenti suoi padri, incitandoli all’ire.
      Gli uomini dell’oggi, al racconto delle sciagure che soprastavano alla Repubblica, in atteggiamento mesto e doloroso rimangono, come coloro che, sopraffatti dalla paura, non sanno a qual partito appigliarsi.
      Per ordine dei supremi consigli si chiamò alfine un consiglio di guerra. Vi assistettero gli ufficiali generali, i brigadieri e i colonnelli. Degni servi degli uomini fiacchi che reggevano la Repubblica, essi opinarono che la città per la poca soldatesca non poteva resistere alla forza superiore degli Austriaci; che non v’erano vittovaglie se non per pochi giorni; che la folla delle popolazioni della Polcevera e del Bisagno, venute a ricoverarsi dentro le mura, oltre il consumo dei viveri, cagionerebbe maggiori confusioni e minore difesa; che il contrastare con guerra non ridonderebbe in altro che in un totale esterminio.
      La Signorìa si credette stretta da una ineluttabile necessità a piegare il collo, e vergognosamente il piegò. Acconsentì alle condizioni, il minor consiglio le approvò; venne sottoscritto il foglio fatale e lo si rimandò a Botta; il quale, non sì tosto l’ebbe ricevuto, ordinò ad una banda di granatieri prendessero possesso della porta della Lanterna.


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Balilla
La cacciata degli austriaci da Genova (1746)
di Felice Venosta
Editore Barbini Milano
1865 pagine 131

   





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