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      Una gran calca di cittadini e di villani scese dai sovrapposti monti, e si avventò contro San Benigno, sito tenuto dagli Austriaci con estrema gelosia. Il terrore da luogo in luogo aveva invaso tutte le anime teutoniche. Ben poco i nemici ostarono in San Benigno, e lo cedettero prestamente; morti alcuni di loro, fatti prigioni altri da quelli che tanto avevano sprezzato ed irritato, e che ora non sapevano combattere. Anche in San Benigno gridavano: «Jesus, Jesus, siamo cristiani!» E cristiani erano essi, poveri schiavi trascinati al macello dal dispotismo e dalla cupidigia altrui. Erano cristiani, ma non il Botta e meno il Chotek e meno ancora gli apostolici e cristianissimi e cattolici padroni autori di tante rovine.
      Perduti i luoghi più importanti, inseguiti dappertutto da stuoli d’armati, scesi anco dal poggio della chiesa degli Angeli, gli Austriaci non pensarono più ad altro che a porsi totalmente in salvo coll’abbandonare affatto una città, che, crudelmente taglieggiata ed insultata, aveva saputo infugarli, e lavare l’onta che su dessa avevano gettato i suoi vilissimi reggitori. Rotti, scemi, avviliti e sanguinosi gli Austriaci dalla ghermita, ed or perduta preda, se ne andarono.
      E ben col poeta poteva gridare il forte popolo genovese ai tiranni d’oltralpe e di oltremare:
     
      «Imparate da me voi che mirateLa pena mia, non violate il giusto,
      Riverite gli Dei.»
     
      XI.
     
      Il popolo era vincitore. La furiosa tempesta aveva cacciati i barbari dalla bella Genova, e le soldatesche croate, varadine, ungare, iloti del dispotismo, che Botta e Chotek per Maria Teresa e Carlo Emanuele avevano condotte all’eccidio di una generosa città, fuggivano collo sgomento nell’animo.


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Balilla
La cacciata degli austriaci da Genova (1746)
di Felice Venosta
Editore Barbini Milano
1865 pagine 131

   





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