Questi a dir vero, giunsero in quel dì medesimo anche in città recando il fatto di Mortara e la prima fuga dei Piemontesi; ma i Bresciani giudicarono quella essere un'avvisaglia di nessuna importanza, e il loro animo non fu minimamente abbattuto.
Il dì 25 passò quieto più che le circostanze paressero concederlo. Tacque il castello; la città preparava le armi. A crescere il numero e l'animo dei difensori calavano dalle valli parecchie centinaia di Trumplini, Valsabbini e Pedemontani, sui quali i capi della congiura avevano pur fatto assegnamento, armandoli e ordinandoli. Ma gli aiuti aspettati dalle provincie non venivano, i Pianigiani non davano sentore di volersi levare; nè dal teatro della guerra giungevano notizie d'alcun fatto importante. Ben sulla sera fu predato il corriere che dal campo portava lettere di privati e dispacci a Verona. Con quanta ansietà si leggessero quei fogli è più facile immaginarlo, che dirlo. Ma i dispacci non recavano cosa d'importanza, e le molte lettere non fecero che crescere l'incertezza. Un ufficiale scriveva dal campo: vincemmo a Mortara, d'un salto entreremo a Torino. Un altro scriveva da Pavia: i nostri trascorrono oltre Mortara, mentre noi qui abbiamo a' fianchi integra e minacciosa una divisione nemica.
I Bresciani avevano fede nella lealtà dei capi e nel valore dell'esercito regio; credevano, come tutti, italianissimo il generale Ramorino: e facilmente si persuasero che gli Austriaci, cacciatisi innanzi a tentare un colpo disperato, sarebbero stati côlti di fianco rituffati nel Po e nel Ticino, presi alle spalle da Ramorino e da Lamarmora.
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