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      Fatto sta che gli Austriaci s'avventarono di nuovo all'assalto. Ma appena le prime schiere si furono messe per la perigliosa forra, che il Milez cadde col cuore trafitto da una palla di carabina. A quella vista i Bresciani, levando uno strido di vittoria, saltarono fuori dai ripari e dai nascondigli, e colle baionette, colle daghe, colle coltella corsero sui nemici, desiderando pur una volta di odorare il loro fiato, come ferocemente chiedevano i macellai, di cui una grossa brigata era venuta alla difesa di sant'Urbano. Di che fu sì grande lo spavento dei soldati, incalliti al fischiare delle palle e al tuonare dei cannoni, ma insoliti a sostenere il baleno d'occhi sanguigni e il digrignare dei denti, ch'essi se ne andarono in dileguo, abbandonando morti o feriti in mano al vincitore; e fra questi anche il loro tenente-colonnello, non ancora ben freddo. I Bresciani lo svestirono, e le spoglie mandarono in città affinchè le vedessero le donne, i vecchi, e ne pigliassero augurio di vittoria. Il cappello e la spada donarono però al feritore, giovane popolano, che, armato d'uno stutzen, da più ore con occhio infallibile stava spiando e saettando gli ufficiali nemici. Il popolo lo gridò capitano del posto; ed ei si piantò presso la commessagli barricata colle trionfali insegne, e vi stette bersaglio ai nemici, e trofeo vivente del valore italiano, finchè delle tante che lo cercavano non l'ebbe giunto una palla che gli ruppe il magnanimo petto.
      Così la piazza dell'Albera, ingombra da mucchi di cadaveri, restò ai nostri: e gli Austriaci non osarono più neppure far capolino dalla via di sant'Urbano.


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Il martirio di Brescia.
Narrazione documentata
di Felice Venosta
Editore Barbini Milano
1863 pagine 125

   





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