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      Consci d'aver dato al mondo un magnanimo esempio, i Bresciani non ruppero al fiero colpo in discordie e in calunnie. E sì che avrebbero potuto con troppa apparenza di ragione dirsi tratti in errore da coloro, che, promettendosi miracoli dall'esercito piemontese, avevano mosso quella pratica esiziale. Ma all'incontro, ricordandosi soltanto che le speranze erano state comuni, e abborrendo dal volgere, secondo il capriccio della fortuna, in colpa ed in biasimo quello che prima a tutti pareva merito e lode, non pensarono neppure un momento a gridare traditori, quelli che l'Austriaco cercava a morte. Anzi tutti d'accordo e principalmente i macellai e gli operai minuti, s'adoperavano anco col rischio di vita, a trarre fuori delle porte e a calare giù delle mura i più noti autori della sommossa, quelli stessi che i sobbillatori e le spie dell'Austria con quell'arte vecchia, che pur troppo, anco in questi dì venne posta in opera per gettare scissura fra noi, accusavano al popolo come macchinatori delle sciagure che aggravavano su Brescia. Onde l'Haynau e l'Appel, per vigili che stessero, non ebbero in mano altro che uomini, i quali non avevano preso parte alcuna a preparare o a dirigere i fatti. Ciò non tolse ai due generali d'incrudelire e allora, e poi; come mostrò l'infame processo del luglio, pel quale dodici popolani, quando già tutta Italia era prostrata e quattro mesi erano corsi sul primo furore delle vendette, furono sentenziati a morire della morte dei ladri. Dodici forche furono rizzate in fila sui baluardi al cantone Mombello in vista dei Ronchi, della città e di quella porta di Torrelunga, ove tante volte i Bresciani avevano con liete grida invocato il Dio della libertà e della vittoria.


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Il martirio di Brescia.
Narrazione documentata
di Felice Venosta
Editore Barbini Milano
1863 pagine 125

   





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