Il memorando trionfo del 22 marzo non si poteva ottenere senza grandi dolori, senza grandi sacrifici. L'albero della libertà non alligna che in terreno inaffiato col sangue dei Martiri. E copioso fu il numero di questi generosi, perchè grande era la forza dei nemici e più grande la loro efferatezza. I Martiri, che conquistarono e resero più preziosa la libertà di Milano, sommano a più centinaia: sono donne, vecchi, fanciulli, sacerdoti, cittadini d'ogni età, d'ogni condizione.
Il giorno 23 era in Milano un contento, una festa che sentiva del delirio. La coscienza di aver saputo col proprio valore cacciare l'abborrito straniero, rendeva baldo quel generoso popolo.
Dopo la vittoria, i Milanesi avrebbero voluto inseguire il fuggente nemico, stringerlo ai fianchi, distruggerlo. Ma quel movimento abbisognava di un capo esperimentato, che riunisse ogni fede; era pure mestieri che venissero ordinate le masse dei battaglieri della libertà; imperocchè, in campo aperto, ogni impetuoso valore diviene dannoso, ove non venga regolato dal senno di chi lo guida. In campo aperto l'uomo deve combattere a posta d'altri e non sua; altrimenti, la disciplinatezza del nemico, quantunque inferiore di animo e di numero, lo atterra e lo infuga.
L'entusiasmo del popolo milanese andò scemando sempre più tra i cantici e l'allegria. Quelli che continuarono ad essere i sopracciò della pubblica cosa non avevano la sapienza delle rivoluzioni. Essi lasciarono che il popolo s'intiepidisse, lasciarono che credesse già compiuta l'antica speranza, che tornasse alle usate faccende, ai piaceri.
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