Il ministero muoveva istanze perchè le mosse offensive si continuassero; i gazzettieri prorompevano in biasimi più o meno aperti, a seconda del partito a cui appartenevano, sulle cose operate cotanto a rilento, sulla persona che le dirigeva, e sul nessun pro' ritirato dalla vittoria di Pastrengo. Carlo Alberto leggeva que' fogli, entrava in gravi pensieri, e ordinava che l'esercito uscisse dall'incriminata immobilità. Alcuni segreti messaggi spediti da Verona al quartiere generale, davano speranza che gli abitanti di quella città sarebbero insorti all'apparire dei nostri nelle vicinanze; dicevano altresì che cinquemila Lombardi avrebbero disertato; ed aggiungevano che le truppe ungheresi, conscie di ciò che accadeva nella loro patria, non avrebbero preso parte al combattimento.
Il Re, a quelle voci, senza molto precisare il come ai capi delle schiere, comandava si eseguisse l'indomani, 6 maggio, una ricognizione offensiva sotto Verona. Nelle prime ore del mattino, le truppe si mossero dai rispettivi campi di Pastrengo e di Goito, o s'avanzarono scaldate da molto entusiasmo. Le due genti s'incontrarono vicino al villaggio di Santa Lucia, da una parte e dall'altra si combattè con impeto grande. I nostri furono sempre vincitori; ma il Re, vedendo che niun movimento avveniva in Verona per parte dei cittadini, ordinava verso sera la ritirata.
Cotesta impresa, malamente diretta e senza assieme, senza la menoma conoscenza del terreno, con uno spreco di sangue, come se da essa avessero dipenduto le sorti supreme d'Italia, colmò di stupore il nemico, il quale tolse un'alta idea del valore italiano, e impensierì i nostri sulla imperizia dei capi e sull'imprevidenza del corpo sanitario.
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