- To'! - rispose, - ho che sono un asino. Una sciocchezza! e se ve la nascondessi sarei sciocco due volte: ecco! - e le raccontò il sogno quale s'era riprodotto punto per punto nella realtà, meno una circostanza che tacque, ben inteso, o piuttosto tradusse ad usum delphini, dicendole che ella nel sogno gli avesse confessato di amarlo - nientedimeno!
Donati rideva ancora, rideva di tutto cuore riandando per filo e per segno le stramberie della notte, che raccontate diventavano più assurde; rideva dell'impressione singolare che il ripetersi di talune circostanze del sogno avea fatto su di lui. Ella da principio s'era fatta rossa; l'ascoltava in silenzio, col mento sulla mano, senza guardarlo più, senza ridere più. Quando egli ebbe finito, abbozzò un pallido sorriso per non lasciarlo senza risposta - non ne trovò una migliore - e s'alzò. Se ne andarono in fretta, discorrendo a sbalzi, qualche volta cercando le parole.
Donati non era precisamente certo di non aver detto qualche corbelleria; ma sentiva in nube che avrebbe dato una mesata del suo stipendio perché non avesse parlato, ed anzi perché non avesse avuto di che parlare. La festa finì zitta zitta, e senza allegria.
Tutti gli anni, il domani della festa, i tre amici solevano andare a desinare in campagna. Stavolta Lina fu indisposta e non se ne fece nulla. Donati avrebbe voluto a qualunque costo che quel giorno si fosse passato come tutti gli altri anni, perché avea sempre sullo stomaco il sogno e il gran ciarlare che ne avea fatto, e avrebbe voluto metterci sopra una buona pietra, col seguitare a far quello che avevano sempre fatto, e non pensarci più. La sera però la passarono come di consueto, in famiglia.
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Lina
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