Pagina (85/993)

   

pagina


Pagina_Precedente  Pagina_Successiva  Indice  Copertina 

      -
      Il barone stava per attaccare una mezza dozzina di quei sacrati che facevan tremare il castello sino dalle fondamenta, ma si contentò di sghignazzar forte:
      - Da quando in qua, madonna, al castello di Trezza le galline si permettono di alzar la cresta? Badate a covarmi dei baroni, piuttosto, com'è vostro dovere, e lasciatemi cantar mattutino e compieta secondo il mio buon piacere -.
      La baronessa l'indomani s'era levata pallida e sofferente, ma cogli occhi luccicanti di un insolito splendore; sembrava rassegnata, ma di una rassegnazione cupa, meditabonda, lampeggiante di tratto in tratto la ribellione e la vendetta; quel marito istesso così rozzo, così brutale, fu una volta sorpreso e impensierito dell'aria indefinibile ed insolita di quella donna che posava il capo sul suo medesimo guanciale, quantunque un sol muscolo della fisionomia di lei non si movesse, e volle mostrarle che le avea perdonato la sua velleità di resistenza con un bacio avvinazzato. - Ella non lo respinse, non si mosse, rimase cogli occhi chiusi, le labbra scolorite e serrate, le guance pallide e ombreggiate dalla lunga frangia delle sue ciglia: soltanto una lagrima ardente luccicò un momento fra quelle ciglia, e scese lenta lenta.
     
     
      VIII.
     
      Una sera il barone tardava a venire; la luna specchiavasi sui vetri istoriati dell'alta finestra, e il mare fiottava sommessamente. La baronessa stava da lunga pezza assorta, sulla sua alta seggiola a braccioli, col mento nella mano, distratta o meditabonda. Corrado, il bel paggio del barone d'Arvelo, le aveva domandato inutilmente due volte se gli comandasse di montare a cavallo, e d'andare in traccia del suo signore.


Pagina_Precedente  Pagina_Successiva  Indice  Copertina 

   

Tutte le novelle
di Giovanni Verga
pagine 993

   





Trezza Arvelo