Inciampò in una scheggia di lava tagliente come un rasoio, e si lacerò un piede; l'oscurità era sì fitta che alle svolte della viottola la povera ragazza spesso urtava contro il muro o la siepe, e cominciava a perder coraggio e a non saper dove si trovasse. Tutt'a un tratto udì l'orologio di Punta che suonava le nove, così vicino che i rintocchi sembravano le cadessero sul capo. Nedda sorrise, quasi un amico l'avesse chiamata per nome in mezzo ad una folla di stranieri.
Infilò allegramente la via del villaggio, cantando a squarciagola la sua bella canzone, e tenendo stretti nella mano, dentro la tasca del grembiule, i suoi quaranta soldi.
Passando dinanzi alla farmacia vide lo speziale ed il notaro tutti inferraiuolati che giocavano a carte. Alquanto più in là incontrò il povero matto di Punta, che andava su e giù da un capo all'altro della via, colle mani nelle tasche del vestito, canticchiando la solita canzone che l'accompagna da venti anni, nelle notti d'inverno e nei meriggi della canicola. Quando fu ai primi alberi del diritto viale di Ravanusa, incontrò un paio di buoi che venivano a passo lento ruminando tranquillamente.
- Ohé, Nedda! - gridò una voce nota.
- Sei tu, Janu?
- Sì, son io, coi buoi del padrone.
- Da dove vieni? - domandò Nedda senza fermarsi.
- Vengo dalla Piana. Son passato da casa tua; tua madre t'aspetta.
- Come sta la mamma?
- Al solito.
- Che Dio ti benedica! - esclamò la ragazza come se avesse temuto il peggio, e ricominciò a correre.
- Addio, Nedda! - le gridò dietro Janu.
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