Il povero ragazzo faceva ogni cosa con garbo, come una brava massaia, e suo padre, accompagnandolo cogli occhi stanchi nelle sue faccenduole qua e là pel casolare, di tanto in tanto sorrideva, pensando che il ragazzo avrebbe saputo aiutarsi, quando fosse rimasto solo.
I giorni in cui la febbre cessava per qualche ora, compare Menu si alzava tutto stravolto e col capo stretto nel fazzoletto, e si metteva sull'uscio ad aspettare Jeli, mentre il sole era ancora caldo. Come Jeli lasciava cadere accanto all'uscio il fascio della legna, e posava sulla tavola il fiasco e le uova, ei gli diceva: - Metti a bollire l'ecalibbiso per stanotte -; oppure; - Guarda che l'oro di tua madre l'ha in consegna la zia Agata, quando non ci sarò più io -. E Jeli diceva di sì col capo.
- È inutile - ripeteva massaro Agrippino ogni volta che tornava a vedere compare Menu colla febbre. - Il sangue oramai è tutto una peste -. Compare Menu ascoltava senza batter palpebra, col viso più bianco della sua berretta.
Diggià non si alzava più. Jeli si metteva a piangere quando non gli bastavano le forze per aiutarlo a voltarsi da un lato all'altro; poco per volta compare Menu finì per non parlare nemmen più. Le ultime parole che disse al suo ragazzo furono:
- Quando sarò morto, andrai dal padrone delle vacche, a Ragoleti, e ti farai dare le tre onze e i dodici tumoli di frumento che avanzo da maggio a questa parte.
- No, - rispose Jeli, - sono soltanto due onze e quindici, perché avete lasciato le vacche che è più di un mese, e bisogna fare il conto giusto col padrone.
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