La videro in brum chiuso con un ufficiale di cavalleria. Al veglione del Dal Verme prese un premio; e una volta di nascosto mandò cinquanta lire alla mamma. Il giorno dello Statuto in piazza del Duomo le passò a lato Poldo, e la sbirciò dicendo qualche cosa all'orecchio della moglie, una grassona la quale si mise a ridere scotendo il ventre.
Però ebbe giorni di fortuna. Un signore forestiero le pagò un mese di allegra vita e di vetture di rimessa. Poscia fece le sue valigie anche lui, e le lasciò qualche migliaio di lire, tutte in ori e fronzoli, che le mangiò un commesso viaggiatore. Un maestro di musica, malato di petto, che moriva di fame e credeva d'attaccarsi alla vita buttandole le braccia al collo, le promise di sposarla. Ella, quantunque non ci credesse più, fece una vita da santa tutto il tempo che rimase con lui, in una soffitta, a cavarsi gli occhi per comprargli le medicine. Stettero anche quarantotto ore senza mangiare né lei né il suo amante, rannicchiati su uno strapunto sotto l'abbaino. Infine l'accompagnò al cimitero di Porta Magenta, lei sola, col cuore stretto da quella giornata trista di febbraio tutta bianca di neve. La sera andò in una scuola di ballo per cercar da cena.
Poi scese giù nella strada; fece la dolorosa via crucis della Galleria e di Via Santa Margherita, nell'ora triste della caccia al pranzo, tremante di freddo sotto il mantello di seta, col viso pallido di cipria, sorridendo a tutti colle labbra affamate, scutrettolando coi piedi gonfi rasente agli uomini che la salutavano con un'occhiata sprezzante; senza ripugnanze, senza simpatie, senza stanchezza, senza sonno, senza lagrime, senza un briciolo della sua sciagurata bellezza che le appartenesse più. Una notte di carnevale, in un'orgia, Poldo volle comprare da lei un bacio coi denari della moglie, ed essa glielo diede, sulla bocca avvinazzata.
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