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      Don Tinu, per cortesia, gli chiese infine di sua moglie, e di comare Filomena, che non si vedevano, nell'osteria deserta; e il vecchio, colle mani tremanti, accennò di qua e di là, lontano, verso il camposanto e verso la città. Per bere un sorso, dovettero sgolarsi a chiamare un ragazzaccio che compare Antonio s'era tirato in casa, onde fare andare l'osteria, e arrivò dall'orticello abbandonato, tutto sonnacchioso, fregandosi gli occhi, insaccato in un giubbone vecchio dello zio Antonio che gli arrivava alle calcagna.
      - Abbiamo fatto un'opera di carità, - osservò don Tinu nel pagare il vino bevuto. - Statevi bene, compare Antonio -.
     
      Così era fatto don Tinu, colle mani sempre aperte, quando ne aveva, e il cuore più aperto ancora. Gli piaceva ridere e divertirsi, e aveva amici e conoscenti in ogni luogo. Spesso lasciava Nanni al negozio, diceva lui, e correva a godersi la festa di qua e di là colle comari (aveva comari da per tutto). Appena arrivava in un paese lo mandavano a chiamare di nascosto, e gli facevano trovare il desco apparecchiato dietro l'uscio, mentre il marito era alla processione colla testa nel sacco. Finché une volta, per la festa del Cristo, a Spaccaforno, portarono don Tinu a casa su di una scala, come un Ecceomo davvero.
      Era stata Grazia che era venuta a chiamarlo: - Signore don Tinu, vi aspettano dove sapete vossignoria -.
      Don Tinu esitava, grattandosi la barba. Non che avesse paura, no. Ma quella ragazza allampanata gli portava la jettatura, c'era da scommettere.


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Tutte le novelle
di Giovanni Verga
pagine 993

   





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