Tutta la sua giovinezza squallida s'era consunta in quelle fantasie ardenti, che le popolavano le notti insonni di cavalieri piumati, di poeti tisici e biondi, di avvenimenti bizzarri e romanzeschi, in mezzo ai quali sognava di vivere anche mentre scopava la scuola o faceva cuocere il magro desinare, nel cortiletto cieco che serviva da cucina. E sotto l'influenza di tutto quel medio evo, la preoccupazione dolorosa della sua disavvenenza e della sua povertà manifestavasi in modo grottesco, con ricciolini artificiosi sulla fronte, trecce spioventi sulle spalle, sgonfi medioevali ai gomiti del vestito e gorgiere inamidate.
- Che è l'ultimo figurino quello? - avevale chiesto un giorno la più elegante e la più crudele delle sue compagne.
Lui solo - tanto tempo addietro! - adesso era impiegato alla Pretura Urbana - quanti palpiti! quanta dolcezza! quanti sogni! Ed ora più nulla, allorché lo incontrava per caso, carico di moglie e di figliuoli! Allora era un giovinetto smunto, con grandi occhi pensosi che stavano a guardare i “vortici delle danze” dal vano di un uscio, come dall'alto, da cento miglia lontano. Le ragazze lo canzonavano anche un po' perché non ballava mai; lo chiamavano “il poeta”. Egli da lontano inchiodava uno sguardo fatale su quella ragazza, sola e dimenticata in un cantuccio al par di lui. Una domenica infine le si fece presentare; le disse con una lunga frase ingarbugliata che aveva ambito l'onore di far la sua conoscenza perché “nella festa” era l'unica persona con cui si potesse scambiare due parole: lo sentiva, gliel'avevano detto: sapeva anche che era una distinta cultrice delle lettere.
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Pretura Urbana
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