Erano defunti d'ogni età e d'ogni sesso: guance ancora azzurrognole, come se fossero state rase ieri l'ultima volta, e bianche forme verginali coperte di fiori; mummie irrigidite nei guardinfanti rigonfi, e toghe corrose che scoprivano tibie nerastre. Dallo spiraglio aperto nell'azzurro entravano egualmente il soffio caldo dello scirocco, e i gelati aquiloni che facevano svolazzare come farfalle di bruchi le trine polverose e i riccioloni cadenti dai crani gialli. I fiori, già secchi di lagrime, si agitavano pel sotterraneo, come vivi, e andavano a posarsi su altre labbra rose dal tempo; e appena il vento sollevava i funebri lenzuoli, stesi da mani smarrite d'angoscia su caste membra amate, occhi inquieti di rettili immondi guardavano furtivi nelle ossa nude.
Poscia, nell'ore in cui il sole moriva sull'orlo frastagliato dello spiraglio, il ghigno schernitore di tutte le cose umane sembrava allargarsi sui teschi camusi, e le occhiaie vuote farsi più nere e profonde, quasi il dito della morte vi avesse scavato fino alla sorgente delle lagrime. Là non giungeva nemmeno il mormorio delle preci recitate all'altare in suffragio dei defunti che dormivano sotto il pavimento della chiesuola, e i singhiozzi dei parenti non passavano il marmo della lapide. Le raffiche delle notti di fortuna scorrevano gemendo sulla casa dei morti, senza lasciarvi un pensiero per coloro che in quell'ora erravano laggiù, pel mare tempestoso, coi capelli irti d'orrore al sibilo del vento nel sartiame; né un senso di pietà per le povere donne che aspettavano sulla riva, sferzate dal vento e dalla pioggia; né un ricordo delle lagrime che videro forse, nell'ora torbida dell'agonia, e che bagnarono quegli stessi fiori che adesso vanno da una bara all'altra, come li porta il vento.
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