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      Essa preferiva quell'ora, l'angolo del salotto riparato dal paravento chinese, la mezzaluce che dissimulava il suo pallore e il suo male. Era il suo pudore e l'ultima sua civetteria. Nell'ombra sentiva che il suo profumo e la sua voce ancora dolce mi parlavano meglio di lei, della Ginevra che avevo conosciuta un tempo.
      - Colei lo sa che siete qui... che fate un'opera buona... per meritarvi il paradiso? -
      Come diceva quelle parole! Come esse sonavano e penetravano! Come attiravano verso di lei quell'anelito frequente e quelle povere mani febbrili!
      - No... non mi fiderei più degli amici... e delle amiche! Ho imparato a spese mie, caro d'Arce! -
      Una sera che aveva tossito più del solito, e parlava più triste, reggendosi il capo col braccio appoggiato al tavolino, mi disse guardandomi fisso, china verso di me, nello stesso tempo che schermivasi dalla luce colla mano aperta:
      - Noi non siamo stati mai... nulla. Ecco perché mi siete rimasto fedele -.
      Le si era fatta la voce un po' roca. Tutto ciò che le veniva alla mente e sulle labbra aveva la stessa velatura stanca, e un abbandono che avvinceva me pure. Senza quasi avvedermene le avevo preso la mano, ed essa me la lasciò, calda ed inerte. Allora, senza guardarmi, quasi senza volerlo, mi confidò il segreto di ciò che aveva sofferto laggiù, lontana da tutti, in paese straniero. Una storia semplice e dolorosa, senza dramma, senza neppure l'ombra di una rivale. Colui pel quale aveva abbandonata la sua casa e la sua patria non l'amava più: ecco tutto.


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Tutte le novelle
di Giovanni Verga
pagine 993

   





Ginevra Arce