Figuriamoci un monarca assoluto padrone d'un vastissimo regno, temuto e rispettato dai vicini, glorioso presso le nazioni, amato, venerato da' suoi sudditi; sarebbe nella infelicità tristissima di non poter gustare verun piacere morale, se potesse essere persuaso che l'amore, il rispetto, l'entusiasmo del suo popolo non sono suscettibili d'un grado di più, e se non temesse di perdere il godimento di questi beni. Un monarca, che fosse immortale, impassibile, e sicuro possessore di questi beni, sarebbe il solo uomo sulla terra, al quale nessun altr'uomo potrebbe mai portare verun fausto annunzio. La sola sorgente per lui dei piaceri morali, benchè languidi e scoloriti, sarebbe la sua noja medesima. Gli oggetti, che gli facessero sperare di sottrarsi da quella letargica uniformità, gli darebbero un momento di languidissimo piacere. Così il romore d'una caccia, l'armonia, la pompa, le passioni, il ridicolo d'un teatro, facendogli sperare una preda, e interessandolo nei sentimenti degli attori, e appropriandosi le loro speranze, possono trarlo ad una esistenza meno noiosa. Egli otterrà che per qualche ora in seguito la sua mente sia occupata d'idee meno uniformi; quindi ne nascerà un qualche piacer morale. Ma a questo stato non può giunger mai un monarca. Egli non può mai esser sicuro dai mali fisici, dolori, malattie, morte; nemmeno può aver egli l'evidenza degl'intimi sentimenti di ciascun del suo popolo; quindi ha sempre nel suo animo de' principj dolorosi di timore, i quali possono dar luogo al nascimento della consolatrice speranza.
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