§. XII.
Di alcuni dolori, e piaceri di opinione.
Ho accennato poco fa che i sensi nostri vengono modificati dalle usanze, e che dall'esempio e dalla educazione impariamo a dimostrar dolore, o piacere talvolta per convenzione; nè parlo io di que' sociali ufficj, che per condiscendenza urbana ci portano a mostrarci sensibili ad oggetti, che non agiscono sopra del nostro animo, il che facciamo conoscendolo, e volendolo; ma parlo di quelle illusioni, che ingannano noi medesimi, e ci fanno esclamare, quasi che fossimo addolorati, o piacevolmente mossi, allorchè veramente non lo siamo, e buonamente crediamo di esserlo, non già perchè sentiamo, ma perchè siamo avvezzi a mostrarci sensibili in quella guisa. Una distonazione clamorosa fa contorcere l'appassionato per la musica, e lo fa dolorosamente sentire, lo crede egli stesso; un bel trillo granito e mordente lo tocca deliziosamente, così dice, e lo crede: io non ho trascurato questa bell'arte; l'amo, ed ho un orecchio sensibile; mostro le stesse apparenze; ma dubito assai, analizzando me stesso lontano dall'armonia, se veramente io provi allora il dolore, e il piacere che m'immagino. Questi due modi se potessero cagionare un dolore, ed un piacere, ne vedremmo qualche traccia anche negli uomini incolti, o educati ad una coltura diversa dalla nostra. Un inglese, un olandese deliziosamente sorbiscono il thè, giudicano delle minime differenze, gustano il giusto grado di forza, di volatile, di odoroso di quella bevanda, che noi italiani beviamo soltanto per consiglio del medico con somma svogliatezza; siamo noi insensibili, ovvero s'ingannano essi credendo di sentire ciò che non sentono?
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