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      In fatti se fissataci una volta in mente la idea d'una assoluta felicità paragoneremo a quella lo stato nostro, tanto lo troveremo distante da quella sognata beatitudine, che renderemo sempre più amaro e misero a sopportare lo stato della nostra condizione; che se più illuminati conosceremo essere i mali il nostro retaggio ed una inseparabile conseguenza del composto di cui siamo formati; se conosceremo che gli uomini, che in apparenza ci sembrano i più invidiabili e felici, sono il più delle volte meschini, costretti a portare sul viso una maschera ridente ma realmente rosi da mille angustiose passioni, e forse più miseri di quello che non lo siamo noi; se toccheremo con mano che quand'anche da noi soli dispoticamente dipendesse l'organizzare tutto il genere umano a nostra foggia e collocarci all'apice della dominazione, ciò non ostante saremmo infelici per sazietà, per la noja, pel vuoto di non aver più desiderj; allora ritornando in noi medesimi troveremo conforto ai nostri mali, ripiglieremo vigore per rintuzzarli o indurirci a quelli, e non disperando di nostra condizione, cercheremo dì rendere più piccola la nostra infelicità coll'industrioso maneggio della ragione, ripiegandoci in noi medesimi e contrapponendo cosa a cosa, e bilanciandoci cogli avvenimenti, come appunto un abile architetto la stessa gravità distruggitrice sa servire alla solidità dell'edificio.
      L'eccesso de' nostri desiderj sopra il potere è la misura della infelicità. Chi niente desidera è in uno stato di letargo; chi sommamente desidera s'accosta al delirio: il primo non è infelice, il secondo lo è di tanto quanto non può conseguire.


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Discorsi sull'indole del piacere e del dolore; sulla felicità; e sulla economia politica
di Pietro Verri
Editore Marelli Milano
1781 pagine 308