Ecco quanto inverosimile sia il racconto. Dice egli adunque che quel Piazza che appena egli conosceva di figura, e col quale anche dal processo risulta che non aveva famigliarità, quel Piazza adunque "la prima volta che trattassimo insieme mi diede il vaso di quella materia, e mi disse così: accomodatemi un vaso con questa materia, con la quale ungendo i catenacci e le muraglie si ammalerà della gente assai, e tutti due guadagneremo". Che verosimiglianza! Se aveva la materia il Piazza in un vaso, perché consegnarla al barbiere acciocché "gli accomodasse un vaso?". Mancavano forse ammalati in quel tempo, mentre morivano 800 cittadini al giorno? Che bisogno di far ammalare la gente? Perché non ungere immediatamente? Non vi è il senso comune. Come poi componeva il barbiere questo mortale unguento? Eccolo. "Si pigliava", prosegue l'infelice Mora, "di tre cose, tanto per una; cioè un terzo della materia che mi dava il commissario, dello sterco umano un altro terzo, e del fondo dello smoglio un altro terzo; e mischiavo ogni cosa ben bene, né vi entrava altro ingrediente, né bollitura". Lo sterco e l'acqua del bucato non potevano che indebolire l'attività della bava degli appestati.
Tessuto così questo secondo romanzo contradittorio del primo, si richiama all'esame il Piazza, che aveva l'impunità a condizione che avrebbe detta la verità intiera, e interrogato se sapesse di qual materia fosse composto o in qual modo fabbricato l'unguento datogli dal barbiere, rispose di non saperlo. Replicò il giudice, se almeno sapesse che alcuno avesse data al barbiere materia per fabbricare quell'unguento, e rispose il Piazza: "Signor no, che non lo so". Se il Piazza avesse data la bava degli appestati, poiché aveva l'impunità dicendo esattamente il tutto e doveva aspettarsi il supplizio non dicendolo esattamente, come mai avrebbe mutilata la circostanza principale nel tempo in cui il complice supposto, cioè il barbiere Mora, co' tormenti l'avrebbe scoperta?
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