Se il prigioniero sarà ammonito più e più volte che il suo silenzio avrà luogo di confessione de' delitti per i quali viene processato, non vi sarà dubbio che si trovi chi ostinatamente cerchi di perdere se medesimo.
A questo passo replicano i sostenitori della pratica attuale: noi non abbiamo la legge che ci autorizzi a condannare come convinto l'uomo, che si ostina al silenzio o alla inconcludente risposta. Su di che essi hanno ragione di sostenere, che una sola legge che abrogasse la tortura sarebbe dannosa al corso della giustizia, qualora contemporaneamente non venisse promulgata l'altra che dichiarasse convinto il contumace.
La nostra pratica criminale è veramente un labirinto di una strana metafisica. Si prende prigione un uomo, che si sospetta reo di un delitto. Quest'uomo cessa in quel momento di avere una esistenza personale. Egli è un essere ideale posto nelle mani del fisco, il quale lo interroga, lo inviluppa, lo spreme, lo tormenta sinché o colle contraddizioni o colle incoerenze, ovvero colla confessione del delitto smunta col tedio del carcere, colla miseria e colle torture, possa il fisco aver tratto da lui medesimo abbastanza per citarlo in giudizio. Fatte tutte queste lunghe e crudeli procedure, nel qual tempo non è permesso al reo di essere assistito o difeso, ecco il fisco che lo cita e lo costituisce avanti il giudice reo del tal delitto. Nei paesi più illuminati, invece, si prende una strada più breve e naturale. Appena posto in carcere il sospetto uomo, nel primo esame si considera cominciare il giudizio.
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