L'incendio memorando distrusse, in agosto del 1160, quasi tutte le provvisioni. L'esercito nemico, del 1161, cominciò a postarsi tra levante e tramontana della città; poi sloggiò e collocò il suo campo, inviandosi a ponente, poi a mezzodì, sempre facendo fronte verso Milano. Una così poderosa armata copriva frattanto dietro di lei una moltitudine di guastatori, i quali tagliavano i grani ancor verdi, le viti, le piante, e devastavano, per la distanza di quindici miglia, tutte le terre. Poi l'esercito nemico scomparve; e si accampò verso Lodi, lasciandoci il miserando spettacolo d'una terra devastata che non poteva darci nulla; e non lasciando altro compenso per vivere, fuori che i pochi grani scampati dall'incendio. È assai facile il figurarci la depressione e l'avvilimento nel quale dovettero a tal vista cadere gli animi de' Milanesi. Il solo scampo che poteva loro rimanere, era quello di avventurare tutto a una giornata: uscire dalla loro città con tutte le forze riunite, dare una battaglia, e terminare la vita con onore, e salvare la patria, distruggendo il nemico, e obbligandolo a lasciarla libera. Ma per abbracciare questo estremo partito, vi voleva quel vigor d'animo ne' cittadini e quell'entusiasmo della patria, che cominciava a venir meno dopo tante infelici vicende. Molti cittadini avevano abbandonato il partito della patria, e si erano gettati a vivere co' nemici. L'esempio del conte di Biandrate ci allontanava dall'affidarci ad un secondo dittatore. Ne' casi estremi il dispotismo solo può salvare la città; ma non sempre vive nella città l'uomo che, per la sua virtù e talenti, meriti il deposito di quella terribile autorità; né sempre il popolo ha mezzi per conoscerlo.
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