La superstizione di quei tempi avrà fatto credere che fosse un maggior delitto il diroccare le mura d'un tempio, che di ridurre alla estrema angoscia gli uomini d'una città. Il Morena, lodigiano ed imperiale, ci lasciò scritto, che: Quinquagesima pars Mediolani non remansit ad destruendum346; lo storico milanese Sire Raul ci scrive: Primo succendit universas domos, postea destruxit et domos347. Vero è che il guasto principalmente lo soffrimmo dai nostri nemici italiani, cremonesi, lodigiani, pavesi, comaschi, vercellesi, novaresi, e dagli abitanti del ducato medesimo delle province Martesana e Seprio, i quali, a più riprese, ritornarono a demolire e incendiare le antiche abitazioni d'una città che gli aveva con troppo orgoglio e ingiustizia maltrattati; ed è probabile che l'imperatore Federico fondasse su questo radicato livore il progetto di impedire che i Milanesi mai più non osassero rientrare nella città; e dovessero vivere sempre a vista della rovinata città, ma separati in quattro terre. Ma gli amori e gli odii d'una città e di una nazione sono tanto variabili quanto l'autorità e l'interesse; poiché la prima li dirige nei paesi ignoranti, l'altro, negli illuminati. Gli autori contemporanei non parlano, né che fosse sparso il sale sulle rovine della città, né che vi fosse passato l'aratro. Queste circostanze s'immaginarono dal Meimbomio, e dal Fiamma posterormente; e il giudizioso nostro conte Giulini dissipa queste favole, troppo incautamente ripetute da chi descrisse questa nostra sciagura348. I buoi non potrebbero trascinare l'aratro sopra di un ammasso di mura diroccate: né in un paese mediterraneo e senza miniere, il sale è tanto abbondante da farne tal uso insolito ed inefficace.
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