Era sul punto il re Enrico d'incamminarsi verso di Roma, per ivi ricevere la terza incoronazione come imperatore; ma ben prevedeva quel prudente signore che sarebbe stata di corta durata la pace data a Milano, s'egli si allontanava, conducendo seco le sue milizie. Gli armati che lo accompagnavano non erano numerosi abbastanza per poterne staccare porzione in custodia della Lombardia. Doveva aspettarsi che l'odio e la rivalità delle fazioni sopite, scoppiassero al momento in cui veniva levato il peso che le aveva fiaccate; e che o i Visconti o i Torriani ben tosto venissero espatriati e resi raminghi co' loro aderenti. Il saggio principe, con accorto consiglio, nominò cento nobili milanesi, dai quali voleva essere onorevolmente accompagnato nel suo viaggio di Roma; e in questo numero erano compresi i capi e i più distinti d'una e dell'altra fazione. Questa determinazione, che in fatti era decorosa per gli eletti, piacque sommamente alla città, che ne traeva l'augurio della ventura quiete e dell'ordine. Gli eletti, per lo contrario, cercavano il pretesto onde potere sventarne l'idea; e quello che singolarmente rappresentavano, era la mancanza del denaro per un decente corredo: mancanza in parte vera; poiché gli espulsi, nel tempo dei partiti, avevano perduto i loro beni. Comandò adunque il re che la comunità di Milano dovess'ella somministrare i mezzi convenienti per i cento nobili nominati ad accompagnarlo. Pareva che per tal modo fosse spianata ogni difficoltà; ma le sorde ed implacabili passioni rovesciarono ogni cosa.
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