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      Il conte Francesco rispose loro che vorrebbe piuttosto morire, anzi che violare la fede verso chi s'era abbandonato al suo potere. In fatti il Piccinino desertò poi con tremila cavalli e mille fanti; ma il tradimento non produsse altro effetto, che una macchia di più alla di lui fama, e un contraposto sempre più glorioso pel conte Francesco.
      Giorgio Lampugnano e Teodoro Bosso, grandi fautori dapprincipio per la libertà, s'erano cambiati ed erano diventati fautori del conte Sforza, o fosse ciò accaduto perché l'esperienza gli avesse convinti della impossibilità di adattare stabilmente alla nazione degradata un politico sistema, o fosse che la fortuna militare e le virtù grandi del conte, e le speranze sotto la sovranità di lui avessero mutate le loro opinioni. Carlo Gonzaga, che, sotto nome di capitano della repubblica, era animato dalla probabile ambizione di cingere la corona ducale di Milano, considerava i due primari partigiani dello Sforza come i primi nemici da spegnere. Intercettaronsi delle lettere in cifra, che Lampugnano e Bosso scrivevano al conte Francesco; s'interpretarono; si connobbe la trama di aprirgli le porte della città, e si destinò di consegnarli come ribelli al supplizio. La difficultà consisteva nel trovare il modo per riuscirvi; poiché i magistrati non avevano forze tali da contenere questi nobili, e si ricorse alla insidia. Si elessero il Lampugnano e il Bosso come oratori di Milano all'imperatore, per implorare il suo aiuto nelle angustie nelle quali la città era posta.


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Storia di Milano
di Pietro Verri
pagine 1182

   





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