Si pubblicò pena di morte a chiunque nominasse Francesco Sforza se non per dispregio, e si andava gridando che, piuttosto che a lui, si darebbero al Turco o al diavolo. I cittadini ragionevoli non ardivano nemmeno d'uscire dalle case loro sotto di un sì atroce governo. Per rimediare al disordine, Guarnerio Castiglione, Pietro Pusterla e Galeotto Toscano formarono un triumvirato, e si posero alla testa della città. Chiusero in carcere l'Ossona e l'Appiano. La plebaglia liberò dal carcere costoro; indi a furore insurgendo contro i triumviri, Galeotto Toscano venne scannato sulla piazza dei palazzo ducale; i due altri si sottrassero colla fuga. Altri furono trucidati, uomini di virtù e di merito. Le case de' migliori cittadini vennero saccheggiate: in somma la misera patria divenne orrendo teatro di sciagure.
In mezzo alle vicende e alle angustie della città stavasene in Milano la vedova duchessa, sposa un tempo di Filippo Maria, la quale, cogliendo l'opportunità, sparse la speranza che il duca di Savoia, di lei padre, venisse a dare soccorso ai Milanesi. In fatti il duca Lodovico di Savoia si affacciò a Novara per discacciarne gli Sforzeschi, ma con esito infelice. Il Piccinino, allorché vide comparire questo nuovo nemico al conte Sforza abbandonollo, seco traendo, siccome vedemmo, tremila cavalli e mille fanti, e alcune terre occupò, sorprendendone gli Sforzeschi. Il conte allora spedì un suo inviato a Milano a fine di persuadere i rettori a non avventurare una città bella, grande e ricca alla inevitabile sciagura d'un assalto; ma l'inviato non poté parlare se non a quei capi che non volevano abbandonare la loro chimerica sovranità. Il marchese Gonzaga, vedendo però le forze del conte, la posizione decisiva di lui, che possedeva quasi tutte le città del contorno, l'ascendente del valor suo e della scienza militare, pensò ai casi propri, e a trarre qualche profitto dalla conciliazione, prima che la necessità lo costringesse a perdere la carica di capitano dei milanesi senza verun compenso.
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