Capitolo XVII
Francesco I Sforza, duca di Milano
Appena il conte ebbe notizia che per quasi unanime voto degli affamati cittadini milanesi egli veniva proclamato signor loro e duca, volle cogliere il momento e senza dimora alcuna entrare nella città; giacché l'indugio non poteva essere di utilità se non ai Veneziani, ai quali fors'anco, per l'instabilità della moltitudine, avrebbero potuto ricorrere, qualora avesse egli tardato a soccorrerli di vittovaglia nella estremità della fame a cui erano ridotti. Postò egli adunque di contro alle schiere venete un corpo di armati valevole a contenerle, e immediatamente egli da Vimercato incamminossi a Milano alla testa d'un altro corpo di fedeli soldati, i quali, oltre le solite armi, vennero caricati sulle spalle e nelle tasche di quanto pane ciascuno poteva portare, con ordine di lasciarsi saccheggiare allegramente dalle affamate turbe milanesi. La strada da Vimercato a Milano era popolata da infinita turba, dice il Corio, singolarmente nelle dieci miglia vicine alla città. Fu uno spettacolo degno di un cuore sensibile quella pompa, nella quale non già primeggiava il fasto o l'alterigia d'un irritato vincitore, ma bensì l'affabile umanità di Francesco Sforza, che amichevolmente accoglieva le grida di allegrezza del popolo, nominava e salutava le conoscenze che aveva fatte sino da' suoi primi anni in questa quasi sua patria, ordinava ai valorosi soldati suoi di abbandonare ogni contegno militare e imponente, e fatti concittadini, di lasciarsi svaligiare dall'affamata moltitudine, che avidamente si satollava col loro pane; e fra le consolanti risa che faceva nascere l'inusitata mischia, fra le grida gioiose de' popoli che andavano esclamando: haec est dies quam fecit Dominus, exultemus et laetemur in ea674, andò accostandosi alla città e vi entrò per Porta Nuova.
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