Narrò come lo stato di Milano, primo tra gli altri d'Italia, al pari di essi, per la libera scelta, per i compri voti, per l'aperta forza, passò alla piena obbedienza di coloro che, a riguardo de' propri meriti e della dignità del casato, erano stati promossi ai consigli ed alla direzione delle forze del comune; come i popoli furono per lungo tempo zimbello dell'ambizione, de' raggiri e de' tradimenti de' loro nuovi tiranni; e come questi furono successivamente con giusta vicenda traditi e sottomessi da tiranni maggiori, e per ultimo tutti assorbiti nel vortice delle grandi monarchie, che avrebbero pur recato ai popoli la pace da tanto tempo sospirata, se non avessero scelta l'Italia a teatro delle loro interminabili querele, non che de' capricci e della rapacità de' loro generali e governatori. Era entrato l'illustre autore a svolgere gli accidenti di quest'infausto periodo della nostra storia, quando, sorpreso dalla morte, fu causa che al canonico Frisi e a me toccasse l'incarico di un proseguimento, ingrato e difficile per il soggetto, e assai più pericoloso per il confronto.
Non gli sfuggì la massima rammentata da Robertson nella Prefazione all'Istoria dell'America, che chi scrive gli avvenimenti delle epoche rimote, non merita la confidenza del pubblico, se non avvalora con testimonianze le proprie asserzioni. E nel produrre queste testimonianze fu egli esattissimo, non affastellando le citazioni altrui, alla foggia di un suo invidioso censore, che ci occuperà nel § II, ma attingendole alle fonti, dopo che, non fidando alla critica altrui, l'aveva affinata al crogiulo del suo sperimentato criterio.
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