Quindi il Vico, il qual aveva creduto ch'esso la stampasse con le Vite di tutti ed in mandandogliela aveva professato che si recava a sommo onore d'esser l'ultimo di tutti in sì gloriosa raccolta, si diede a tutto potere a scongiurarlo che nol facesse a niun patto del mondo, perché né esso conseguirebbe il suo fine ed il Vico senza sua colpa sarebbe oppresso dall'invidia. Ma, con tutto ciò, essendosi il signor conte fermo in tal suo proponimento, il Vico, oltre di essersene protestato da Roma per una via del signor abate Giuseppe Luigi Esperti, se ne protestò altresì da Venezia per altra di esso padre Lodoli, il qual aveva egli saputo da esso signor conte che vi promoveva la stampa e del di lui Progetto e della Vita di esso Vico; come il padre Calogerà, che l'ha stampato nel primo tomo della sua Raccolta degli opuscoli eruditi, l'ha pubblicato al mondo in una lettera al signor Vallisnieri, che vi tien luogo di prefazione; il quale quanto in ciò ha favorito il Vico, tanto dispiacer gli ha fatto lo stampatore, il quale con tanti errori anco ne' luoghi sostanziali n'ha strappazzato la stampa. Or nel fine del catalogo delle opere del Vico, che va in piedi di essa Vita, si è con le stampe pubblicato: «Princìpi d'una Scienza nuova d'intorno alla natura delle nazioni, che si ristampano con l'Annotazioni dell'autore in Venezia».
Di più, dentro il medesimo tempo avvenne che d'intorno alla Scienza nuova gli fu fatta una vile impostura, la quale sta ricevuta tra le Novelle letterarie degli Atti di Lipsia del mese di agosto dell'anno 1727. La qual tace il titolo del libro, ch'è il principal dovere de' novellieri letterari (perocché dice solamente «Scienza nuova», né spiega dintorno a qual materia); falsa la forma del libro, che dice esser in ottavo (la qual è in dodicesimo); mentisce l'autore e dice che un lor amico italiano gli accerta che sia un «abate» di casa Vico (il qual è padre e per figliuoli e figliuole ancor avolo); narra che vi tratta un sistema o piuttosto «favole» del diritto naturale (né distingue quel delle genti, che ivi ragiona, da quel de' filosofi che ragionano i nostri morali teologi, e come se questa fusse la materia della Scienza nuova, quando egli n'è un corollario); ragguaglia dedursi da princìpi altri da quelli da' quali han soluto finor i filosofi (nello che, non volendo, confessa la verità, perché non sarebbe «scienza nuova» quella dalla quale si deducono tai princìpi); il nota che sia acconcia al gusto della Chiesa catolica romana (come se l'esser fondato sulla provvedenza divina non fusse di tutta la religion cristiana, anzi di ogni religione: nello che ed egli si accusa o epicureo o spinosista, e, 'n vece d'un'accusa, dà la più bella lode, ch'è quella d'esser pio, all'autore); osserva che molto vi si travaglia ad impugnare le dottrine di Grozio e di Pufendorfio (e tace il Seldeno, che fu il terzo principe di tal dottrina, forse perch'egli era dotto di lingua ebrea); giudica che compiaccia più all'ingegno che alla verità (quivi il Vico fa una digressione, ove tratta degli più profondi princìpi dell'ingegno, del riso e de' detti acuti ed arguti: che l'ingegno sempre si ravvolge dintorno al vero ed è 'l padre de' detti acuti, e che la fantasia debole è la madre dell'argutezze, e pruova che la natura dei derisori sia, più che umana, di bestia); racconta che l'autore manca sotto la lunga mole delle sue congetture (e nello stesso tempo confessa esser lunga la mole delle di lui congetture), e che vi lavora con la sua nuova arte critica sopra gli autori delle nazioni (tralle quali appena dopo un mille anni provenendovi gli scrittori, non può ella usarne l'autorità); finalmente conchiude che da essi italiani più con tedio che con applausi era ricevuta quell'opera (la qual dentro tre anni della sua stampa si era fatta rarissima per l'Italia e, se alcuna se ne ritruovava, comperavasi a carissimo prezzo, come si è sopra narrato; ed un italiano con empia bugia informò i signori letterati protestanti di Lipsia che a tutta la sua nazione dispiaceva un libro che contiene dottrina catolica!
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