Che sono le tre cagioni propie onde si distinse al mondo la giurisprudenza romana.
Tutte queste degnità, dalla otantesimaquarta incominciando, espongono nel suo giusto aspetto la storia romana antica: le seguenti tre vi si adoprano in parte.
XCII
I deboli vogliono le leggi; i potenti le ricusano; gli ambiziosi, per farsi séguito, le promuovono; i principi, per uguagliar i potenti co' deboli, le proteggono.
Questa degnità, per la prima e seconda parte, è la fiaccola delle contese eroiche nelle repubbliche aristocratiche, nelle qual'i nobili vogliono appo l'ordine arcane tutte le leggi, perché dipendano dal lor arbitrio e le ministrino con la mano regia: che sono le tre cagioni ch'arreca Pomponio giureconsulto, ove narra che la plebe romana desidera la legge delle XII Tavole, con quel motto che l'erano gravi «ius latens, incertum et manus regia». Ed è la cagione della ritrosia ch'avevano i padri di dargliele, dicendo «mores patrios servandos, leges ferri non oportere», come riferisce Dionigi d'Alicarnasso, che fu meglio informato che Tito Livio delle cose romane (perché le scrisse istrutto delle notizie di Marco Terenzio Varrone, il qual fu acclamato «il dottissimo de' romani»), e in questa circostanza è per diametro opposto a Livio, che narra intorno a ciò: i nobili, per dirla con lui, «desideria plebis non aspernari». Onde, per questa ed altre maggiori contrarietà osservate ne' Princìpi del Diritto universale, essendo cotanto tra lor opposti i primi autori che scrissero di cotal favola da presso a cinquecento anni dopo, meglio sarà di non credere a niun degli due.
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