Tanto più che ne' medesimi tempi non la credettero né esso Varrone, il quale nella grande opera Rerum divinarum et humanarum diede origini tutte natie del Lazio a tutte le cose divine ed umane d'essi romani; né Cicerone, il qual in presenza di Quinto Muzio Scevola, principe de' giureconsulti della sua età, fa dire a Marco Crasso oratore che la sapienza de' decemviri di gran lunga superava quella di Dragone e di Solone, che diedero le leggi agli ateniesi, e quella di Ligurgo, che diedele agli spartani: ch'è lo stesso che la legge delle XII Tavole non era né da Sparta né da Atene venuta in Roma. E crediamo in ciò apporci al vero: che non per altro Cicerone fece intervenire Q. Muzio in quella sola prima giornata che - essendo al suo tempo cotal favola troppo ricevuta tra' letterati, nata dalla boria de' dotti di dare origini sappientissime al sapere ch'essi professavano (lo che s'intende da quelle parole che 'l medesimo Crasso dice: «Fremant omnes: dicam quod sentio») - perché non potessero opporgli ch'un oratore parlasse della storia del diritto romano, che si appartiene saper da' giureconsulti (essendo allora queste due professioni tra lor divise); se Crasso avesse d'intorno a ciò detto falso, Muzio ne l'avrebbe certamente ripreso, siccome, al riferir di Pomponio, riprese Servio Sulpizio, ch'interviene in questi stessi ragionamenti, dicendogli «turpe esse patricio viro ius, in quo versaretur ignorare».
Ma, più che Cicerone e Varrone, ci dà Polibio un invitto argomento di non credere né a Dionigi né a Livio, il quale senza contrasto seppe più di politica di questi due e fiorì da dugento anni più vicino a' decemviri che questi due.
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