A' greci fu anco Giove esso cielo, in quanto ne consideravano i teoremi e i matemi altre volte detti, che credevano cose divine o sublimi da contemplarsi con gli occhi del corpo e da osservarsi (in senso di «eseguirsi») come leggi di Giove; da' quai matemi nelle leggi romane «mathematici» si dicono gli astrolaghi giudiziari.
De' romani č famoso il sopra qui riferito verso di Ennio:
Aspice hoc sublime cadens, quem omnes invocant Iovem,
preso il pronome «hoc», come si č detto, in significato di «coelum»; ed a' medesimi si dissero «templa coeli», che pur sopra si sono dette le regioni del cielo disegnate dagli ŕuguri per prender gli auspěci. E ne restň a' latini «templum» per significare ogni luogo che da ogni parte ha libero e di nulla impedito il prospetto; ond'č «extemplo» in significato di «subito», e «neptunia templa» disse il mare, con maniera antica, Virgilio.
De' germani antichi narra Tacito ch'adoravano i loro dči entro luoghi sagri, che chiama «lucos et nemora», che dovetter essere selve rasate dentro il chiuso de' boschi (del qual costume durň fatiga la Chiesa per dissavvezzargli, come si raccoglie da' concili stanetense e bracarense nella Raccolta de' decreti lasciataci dal Buchardo), ed ancor oggi se ne serbano in Lapponia e Livonia i vestigi.
De' peruani si č truovato Iddio dirsi assolutamente «il Sublime», i cui templi sono, a ciel aperto, poggi ove si sale da due lati per altissime scale, nella qual altezza ripongono tutta la loro magnificenza. Onde dappertutto la magnificenza de' templi or č riposta in una loro sformatissima altezza.
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