Uno è quello: «Non casus, non fortuita conglobatio turmam aut cuneum facit, sed familiæ et propinquitates». L'altro è: «Duces exemplo potius quam imperio; si prompti, si conspicui, si ante aciem agant, admiratione præsunt».
Tali essere stati i primi re in terra ci si dimostra da ciò: che tal i poeti eroi immaginarono essere Giove in cielo re degli uomini e degli dèi, per quell'aureo luogo di Omero dove Giove si scusa con Teti ch'esso non può far nulla contro a ciò che gli dèi avevano una volta determinato nel gran consiglio celeste; ch'è parlare di vero re aristocratico: dove poi gli stoici ficcarono il loro dogma di Giove soggetto al fato; ma Giove e gli altri dèi tennero consiglio d'intorno a tai cose degli uomini, e sì le determinarono con libera volontà. Il qual luogo qui riferito ne spiega due altri del medesimo Omero, ne' quali con errore i politici fondano ch'Omero avesse inteso la monarchia. Uno è di Agamennone, che riprende la contumacia d'Achille; l'altro è di Ulisse, che i greci, ammutinati di ritornar alle loro case, persuade di continuare l'assedio incominciato di Troia: dicendo entrambi che «uno è 'l re», perché l'un e l'altro è detto in guerra, nella quale uno è 'l general capitano, per quella massima avvertita da Tacito ove dice: «eam esse imperandi conditionem, ut non aliter ratio constet quam si uni reddatur». Del rimanente, lo stesso Omero in quanti luoghi de' due poemi mentova eroi dà loro il perpetuo aggiunto di «re»: col quale si confà a maraviglia un luogo d'oro del Genesi, ove quanti Mosè narra discendenti d'Esaù tanti ne appella «re», o dir vogliamo capitani, che la Volgata legge «duces»; e gli ambasciadori di Pirro gli riferiscono d'aver veduto in Roma un senato di tanti re.
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