Con la qual guisa si narra distintamente ciò che 'n confuso Platone disse: «le repubbliche esser nate sulla pianta dell'armi»; a cui dev'unirsi ciò ch'Aristotile ci disse sopra nelle Degnità: che nelle repubbliche eroiche i nobili giuravano d'esser eterni nimici alla plebe; e ne restò propietà eterna, per la quale ora diciamo i servidori esser nimici pagati de' loro padroni. La qual istoria i greci ci conservarono in questa etimologia, per la quale, appo essi, da pólis, «città», pólemos è appellata la «guerra».
Quivi le nazioni greche immaginarono la decima divinità delle genti dette maggiori, che fu Minerva. E la si finsero nascere con questa fantasia, fiera ugualmente e goffa: che Vulcano con una scure fendette il capo di Giove, onde nacque Minerva; volendo essi dire che la moltitudine de' famoli ch'esercitavan arti servili, che, come si è detto, venivano sotto il genere poetico di Vulcano plebeo, essi ruppero (in sentimento d'«infievolirono» o «scemarono») il regno di Giove (come restò a' latini «minuere caput» per «fiaccare la testa», perché, non sappiendo dir in astratto «regno», in concreto dissero «capo»), che stato era, nello stato delle famiglie, monarchico, e cangiarono in aristocratico in quello delle città. Talché non è vana la congettura che da tal «minuere» fusse stata da' latini detta Minerva; e da questa lontanissima poetica antichità restasse a' medesimi, in romana ragione, «capitis deminutio» per significare «mutazione di stato», come Minerva mutò lo stato delle famiglie in quello delle città.
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