Delle quali riferimmo nelle Degnità quel luogo d'oro d'Aristotile ne' Libri politici, ove dice che non avevano leggi giudiziarie da punir i torti ed emendare le violenze private: lo che, sulla falsa oppenione finor avuta dalla boria de' dotti d'intorno all'eroismo filosofico de' primi popoli, il qual andasse di séguito alla sapienza innarrivabile degli antichi, non si è creduto finora.
Certamente, tra' romani furono tardi introdutti, e pur dal pretore, così l'interdetto «Unde vi» come le azioni «De vi bonorum raptorum» e «Quod metus caussa», come altra volta si è detto. E, per lo ricorso della barbarie ultima, le ripresaglie private durarono fin a' tempi di Bartolo; che dovetter essere «condiczioni», o «azioni personali» degli antichi romani, perché «condicere», secondo Festo, vuol dire «dinonziare» (talché il padre di famiglia doveva dinonziare, a colui che gli aveva ingiustamente tolto ciò ch'era suo, che glielo restituisse, per poi usare la ripresaglia); onde tal dinonzia restò solennità dell'azioni personali: lo che da Udalrico Zasio acutamente fu inteso.
Ma i duelli contenevano giudizi reali, che, perocché si facevano in re præsenti, non avevano bisogno della dinonzia; onde restarono le vindiciæ, le quali, tolte all'ingiusto possessore con una finta forza, che Aulo Gellio chiama «festucaria», «di paglia» (le quali dalla forza vera, che si era fatta prima, dovettero dirsi «vindiciæ»), si dovevano portare dal giudice, per dire, in quella gleba o zolla: «Aio hunc fundum meum esse ex iure quiritium». Quindi coloro che scrivono i duelli essersi introdutti per difetto di pruove, egli è falso; ma devon dire: per difetto di leggi giudiziarie.
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