Tanto a' tempi di Plauto regnava ne' giudizi l'equità naturale!
Né solamente tal diritto stretto fu naturalmente osservato tra gli uomini; ma, dalle loro nature, gli uomini credettero osservarsi da essi dèi anco ne' lor giuramenti. Siccome Omero narra che Giunone giura a Giove, ch'è de' giuramenti non sol testimone ma giudice, ch'essa non aveva solecitato Nettunno a muovere la tempesta contro i troiani, perocché 'l fece per mezzo dello dio Sonno; e Giove ne riman soddisfatto. Così Mercurio, finto Sosia, giura a Sosia vero che, se esso l'inganna, sia Mercurio contrario a Sosia: né è da credersi che Plauto nell'Anfitrione avesse voluto introdurre i dèi ch'insegnassero i falsi giuramenti al popolo nel teatro. Lo che meno è da credersi di Scipione Affricano e di Lelio (il quale fu detto il «romano Socrate»), due sappientissimi principi della romana repubblica, co' quali si dice Terenzio aver composte le sue commedie; il quale nell'Andria finge che Davo fa poner il bambino innanzi l'uscio di Simone con le mani di Miside, acciocché, se per avventura di ciò sia domandato dal suo padrone, possa in buona coscienza niegare d'averlovi posto esso.
Ma quel che fa di ciò una gravissima pruova si è ch'in Atene, città di scorti ed intelligenti, ad un verso di Euripide, che Cicerone voltò in latino:
Iuravi lingua, mentem iniuratam habui,
gli spettatori del teatro, disgustati, fremettero, perché naturalmente portavano oppenione che «uti lingua nuncupassit, ita ius esto», come comandava la legge delle XII Tavole.
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