Talché né da' gramatici né da' politici né da' giureconsulti è stato osservato il perché, nella contesa di comunicarsi il consolato alla plebe, i patrizi, per farla contenta senza pregiudicarsi di comunicarle punto d'imperio, fecero quell'uscita di criare i tribuni militari, parte nobili parte plebei, «cum consulari potestate», come sempre legge la storia, non già «cum imperio consulari», che la storia non legge mai.
Onde la repubblica romana libera si concepì tutta con questo motto, in queste tre parti diviso: «senatus autoritas», «populi imperium», «tribunorum plebis potestas». E queste due voci restarono nelle leggi con tali loro native eleganze: che l'«imperio» si dice de' maggiori maestrati, come de' consoli, de' pretori, e si stende fino a poter condennare di morte; la «potestà» si dice de' maestrati minori, come degli edili, e «modica coercitione continetur».
Finalmente, spiegando i romani prìncipi tutta la loro clemenza verso l'umanità, presero a favorire la schiavitù e raffrenarono la crudeltà de' signori contro i loro miseri schiavi; ampliarono negli effetti e restrinsero nelle solennità le manomessioni; e la cittadinanza, che prima non si dava ch'a' grandi stranieri benemeriti del popolo romano, diedero ad ogniuno ch'anco di padre schiavo, purché da madre libera (nonché nata, affranchita) nascesse in Roma. Dalla qual sorta di nascere liberi nelle città il diritto naturale, ch'innanzi dicevasi «delle genti» o delle case nobili (perché ne' tempi eroici erano state tutte repubbliche aristocratiche, delle quali era propio cotal diritto, come sopra si è ragionato), poi che vennero le repubbliche popolari (nelle quali l'intiere nazioni sono signore degl'imperi) e quindi le monarchie (dove i monarchi rappresentano l'intiere nazioni loro soggette), restò detto «diritto naturale delle nazioni».
| |
Roma
|